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CAST. Baldo Diodato, Schirin Kretschmann, Yorgos Stamkopoulos

02.03.21 — 23.04.21

La Galleria Mario Iannelli ha il piacere di presentare una mostra collettiva di Baldo Diodato, Schirin Kretschmann e Yorgos Stamkopoulos che ne mette a confronto le ricerche in un reciproco significante insieme.

 

Il titolo “Cast” pone in evidenza l’atto del calcare quale punto di partenza nell’osservazione della cifra costante dell’opera concettuale e scultorea di Diodato che si ritrova in alcuni aspetti e in forme mutate nel lavoro site-specific di Kretschmann e nella pittura di Stamkopoulos.

 

Le opere di Diodato in mostra sono un “frottage” su tela degli anni Settanta eseguito per mezzo di una performance e opere della serie “Sanpietrini", icona della sua produzione più recente dagli anni 2000 in cui ha “calcato il passo della storia” (Achille Bonito Oliva; 2002 Marcaurelio, 2010 “Squares of Rome”, 2016 “You Are Here” 13 Piazze di Roma).
Le sue performances sono prelievi di frammenti spaziali in lassi temporali, veri e propri “calchi del tempo” (1974 Sculture Viventi, Philadelphia; 1979 Quattro passi sulla tela, “One hour footing”, Rotonda Diaz, Napoli; 2015 “Tempo Reale”, Museo Bilotti, Roma).
Nel 1976 nella Alessandra Gallery di New York ha rivestito il pavimento dell’intero spazio con un doppio livello di tela sovrapposto a carta copiativa. Le prime performances di questo genere sono nate all’esterno e risalgono al 1974 nella JFK Square di Philadelphia. In esse viene prodotto un “frottage” collettivo con il passaggio del pubblico che è parte necessaria dell’opera, “scultura vivente” secondo le parole di Diodato.
Il frottage su tela esposto è un frammento di quella mostra che ne inquadra le date di inizio e di fine.
Durante l’inaugurazione sarà eseguita una performance su una parte del pavimento della galleria che sarà rivestita con tela e pigmenti, il cui risultato sarà poi esposto sulle pareti. In questa occasione viene svolto il progetto di realizzare il lavoro che era stato programmato per una mostra personale in galleria dal titolo “Walking on Canvas” che si fosse concentrata sulla sola esperienza del camminare sulla tela, mentre l’attuale configurazione della mostra ha meritato nel frattempo la sua genesi grazie ad un istantaneo e spontaneo riflesso dell’opera di Diodato verso le posizioni di artisti di cui la galleria segue il percorso e con i quali è interessata a verificare simmetrie stilistiche e storiche.
La ricerca di Diodato, fondata su una pratica che affonda le sue radici nel ready-made di Duchamp e nella tecnica del frottage di Max Ernst, che fa del prelievo il dispositivo concettuale dell’opera d’arte, si distingue nel panorama italiano ed internazionale per aver attraversato le avanguardie del secondo Novecento ed essere stata precorritrice nella sperimentazione di nuovi linguaggi, attitudini e materiali, dall’informale al minimalismo e la pop-art all’arte performativa, ambientale e multimediale, dalle prime opere con ferro e stoffe soggette a combustione o con i cesti di frutta di plastica assemblati alla tela, alle prime sperimentazioni con il neon precedenti cronologicamente all’arte povera, portando avanti uno studio sulla tridimensionalità a partire da una superficie bidimensionale modulare (“Finestra sul Mondo”, acciaio inossidabile a specchio, Philadelphia Museum of Art 1975) che nel quadrato trova una finestra per “l’immagine-tempo” (Deleuze) rimanendo una costante fino nella sua recente produzione “Finestre Newyorkesi” (2020), una serie di disegni su carta riempiti di reticoli quadrati. 
La sua attività si è svolta prevalentemente in tre città: Napoli (fino al 1967), New York (dal 1967 al 1991) e Roma (dal 1991).
A Napoli presso la Modern Art Agency ha esposto nel 1967 “Due cubi scomponibili”, differenti sia da quelli di Fabro (In-cubo 1966) che da quelli degli artisti minimalisti americani Judd, Morris, LeWitt, Andre per la possibilità di essere agiti e non solo attraversati o abitati (Mariantonietta Picone Petrusa “Baldo Diodato: Italia-USA andata e ritorno”).
Di Roma è un Genius Loci, non solo per aver calcato le sue piazze ed i suoi luoghi storici ma per aver impresso il suo lavoro nel paesaggio. Basta guardare Roma in un giorno di pioggia che la pavimentazione a sanpietrini bagnata ci riporta alle sue lamiere e alle sue resine, potenzialmente un’installazione senza fine, che in quel momento riconosciamo di una grandezza pari alle sculture barocche e le architetture classiche e nella loro specificità di scultura “bidimensionale e pellicolare” (Achille Bonito Oliva) dove la luce si rifrange sulla patina dell’usura o è invece altre volte neutralizzata dalla pittura monocroma sul bassorilievo che evoca un parallelo con le superfici estroflesse di Castellani. 
Ugualmente, le sue opere site-specific non solo prelevano frammenti del tempo e della storia ma raccontano le storie dei luoghi e degli ambienti dove si trovano in permanenza, alla Fondazione Orestiadi di Tunisi (“Sedici colonne colorate”), nella Metropolitana di Napoli (Stazione Cilea) e al Museo delle Trame Mediterranee in cui realizza con alluminio e 30mq di fibre ottiche “Cielo stellato su Gibellina”, vibrante della stessa poetica della forma dell’opera “32 mq di mare circa” di Pascali e del “Bosco Naturale-Artificiale” di plexiglass di Marotta.
Inoltre le sue opere e le sue installazioni si confrontano con l’ambiente per l’effetto del tempo anche oltre la loro esecuzione, come si può osservare nelle tracce sulle tele degli anni Settanta che mutano d’intensità e persino fino alla loro distruzione come presso la Certosa di Padula in cui la tela lasciata nell’originario camminamento dei monaci è materialmente svanita in seguito al passaggio e astrattamente in una lirica suggestiva e delicata, come solo le opere di Baldo Diodato, mosse dall’istinto legato al caso, sanno cogliere dell’armonia circostante.
Sue opere sono in numerose collezioni pubbliche e private fra le quali il Philadelphia Museum of Art, Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Museo del Novecento (Castel Sant’Elmo), Certosa di Padula (SA), la Fondazione Morra di Napoli, MAACK (CB). Nel 2016 ha esposto una retrospettiva alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma a cura di Achille Bonito Oliva.
Dal 2010 in collaborazione con il musicista Antonio Caggiano realizza performances musicali che sfruttano le sue opere come strumento sonoro (2010 Tappeto in musica, Museo Hermann Nitsch, Napoli; 2010 Tappeto musicale, Erica Fiorentini Arte Contemporanea, Roma; 2011 Pedestrian Flag, Camponeschi, Roma; 2012 Tappeto sonoro. Omaggio a John Cage, Piazza San Francesco, Lucca; 2012 Botta di sale, Isola Lunga, Marsala (TP); 2017 Porzione di Villa Blanc, Roma).



 

Anche il lavoro site-specific di Schirin Kretschmann interagisce con il pubblico e sfrutta le strutture dello spazio. In alcune sue installazioni lo ricopre con pigmenti e gesso che vengono alterati dall’azione del tempo e del pubblico che lo sperimenta fisicamente. (“Physical” 2017, “Toter Winkel" 2018, “True Blue” 2015, “Another Perfect Day” 2014)
L’opera “Labor (II)” che occupa una parete della galleria da autunno 2019 fa parte di una serie di sperimentazioni realizzate con il grasso. 
L’esecuzione di questo lavoro è spesso realizzata in luoghi di confine e allo scopo di configurare una nuova percezione dello spazio, spesso fra un interno ed un esterno (“Polish” 2011; “Labor I” 2018, “Paste” 2019, “Lets Slip Into Her Shoes (V)” 2017).
“Labor (II)” si trova in una parete che solitamente non viene sfruttata per la presentazione di opere che tuttavia è visibile nel mezzo della galleria terminando in un angolo frapponendosi parallelamente alla parete di fondo quasi fosse una colonna.
Prima dell’intervento con il grasso è stato applicato del materiale sul muro per contenere la sua efflorescenza al fine di potersi relazionare con le altre opere d’arte che sarebbero state esposte. Dopo la fine della mostra per la quale è stata realizzata non è stata rimossa ma ha preso posto in varie successive costellazioni espositive.
Questa operazione ha permesso alla galleria di superare la logica del white cube che prevede che uno spazio sia sempre reinterpretato come un nuovo originale e all’artista di realizzare un’opera d’arte “site-specific” impegnata in una continua negoziazione con l’ambiente verso cui è interdipendente.
In altri esempi nell’opera di Kretschmann, il suo lavoro a muro potenzialmente tossico presso il Kunstmuseum di Stoccarda (2018) era in un equilibrio calcolato rispetto al non disfacimento dell’opera di Dieter Roth “Gartenzwerg” del 1972 realizzata in cioccolato, che è esposta in permanenza presso il museo ed è sottoposta a rigide misure di manutenzione; mentre idealmente ne rappresentava il suo contraltare per essere un’opera destinata alla trasformazione.
Nella mostra nel Fuhrwerkwaage di Colonia (2013) ha realizzato un intervento con grasso sul pavimento al centro dello spazio sopra a cui l’impianto di riscaldamento del soffitto ha impedito al materiale di modificarsi mentre le pareti fredde ne hanno stabilizzato la forma ai suoi lati. 
E’ impossibile altrimenti prevedere esattamente come sarà il lavoro o la sua posizione. 
L’opera lavora con le circostanze.
Anche chi ospita l’opera d’arte è costretto a decisioni. Non si sa ancora quindi se “Labor (II)” sarà rimosso dopo la mostra, sarà una questione successiva da negoziare con l’artista e da valutare rispetto ad altre questioni o emergenze. 
Le altre opere esposte di Kretschmann dialogano armonicamente con l’installazione di Diodato.
Le prime sono una serie di lavori di piccole dimensioni prodotti con il piegamento della carta, “Folded Papers” (2009-2012). 
Queste opere non sono state create per essere dal principio un’immagine astratta, quanto per essere esperite. Ogni piega è una decisione, è una traccia di movimento, un cambiamento apparente o effettivo nelle qualità spaziali dell'opera attraverso un cambiamento di posizione. Solo dopo il trattamento con macchine piegatrici e cordonatrici assume la forma di rilievo astratto e riferimento architettonico.
Ciò che accade nelle installazioni di Diodato in cui il pubblico è invitato a camminare su di esso liberamente, imprimendo i segni dei propri movimenti.
Kretschmann porta avanti una ricerca su carta sperimentando processi corrispondenti a quelli che realizza nelle sue installazioni e performances. 
L’altra serie esposta, i “Floor Works”, sono opere a “frottage” con la grafite su carta realizzate utilizzando il pavimento del proprio studio, che nascono come cancellazioni di tracce precedenti ma che finiscono per crearne di altre nei fori ricavati dalla loro distruzione.
 Infine lo spargimento di pigmenti in polvere è una pratica che Diodato e Kretschmann usano entrambi. Mentre Diodato li stende sulla tela per eseguire il frottage dando luogo ad una profondità spaziale aerea e molecolare che si ritrova in altre opere come in particolare quelle con le graffiature sull’alluminio o in cui ha applicato carte riflettenti e nei stessi Sanpietrini dalle superfici levigate cangianti, nella serie “Form on the day” di Kretschmann lo stato del pigmento è conservato tra due vetri e la forma assume struttura attraverso l’ombra proiettata sul muro, che ha una funzione analoga agli aloni delle opere realizzate con il grasso che aggiungono un valore plastico.

 

La pratica pittorica di Yorgos Stamkopoulos si interseca ai codici stilistici di Kretschmann e Diodato in modo coerente. 
Ne condivide un discorso sulla materia e sulla forma e su alcuni aspetti “scientifici” dell’opera d’arte dando contemporaneamente libera espressione alla poetica immediata del segno. 
Nei suoi dipinti la deflagrazione di masse pittoriche produce una vertigine fra i pieni e i vuoti caratterizzati dalle parti di tela non trattata, gli eventi sono interconnessi in una danza che imita la vita, la materia pittorica viene in primo piano con un equilibrato accordo di colori restituendo un’immagine fluttuante.
In base alla sua tecnica che prevede lo strappo di un mascheramento multiplo, Stamkopoulos non vede direttamente ciò che dipinge perché lo nasconde con stratificazioni implementando un processo come quello prodotto dall’inserimento della carta copiativa nell’installazione di Diodato in cui l’opera si configura alla fine in quanto rivelazione di tracce.
Con Schirin Kretschmann ha partecipato alla mostra “Monochromes” in galleria in cui veniva messa in luce una poetica del monocromo legata al tempo che è entrato nell’opera scardinando i confini della forma che sono mutati in possibilità spaziali.
L'intervista a Stamkopoulos di Lorenzo Bruni in occasione della mostra "Trajectory" in galleria del 2017 ha segnato una riflessione sul ruolo e sulla comunicabilità della pittura oggi a partire dai riferimenti storici della pittura di Stamkopoulos e dalla sua reazione ad essi nel “tentativo di non rappresentare la realtà, ma fornire uno strumento per dialogare con essa ” (Bruni) e di “ridefinirla insieme alla presenza umana in essa” (Stamkopoulos), la stessa funzione delle opere a “frottage” di Diodato che sono state attraversate, vissute, disegnate solo dall’uomo. 
Le sculture lineari di acciaio nella mostra Trajectory, che a seconda della posizione di chi guardava le si poteva percepire come sculture o solide linee che si confondevano alla pittura murale, avevano origine nei segni a spray tipici di una cultura urbana dei graffiti che usava già nei suoi quadri, la cui struttura è creata attraverso la parziale distruzione di ciò che è stato applicato similmente allo stato di un affresco in decadenza, un “décollage” di Rotella, i “Floor Works” o l’installazione permanente “Limon” (2017, Stühlinger, Fribugo) realizzata da Kretschmann lungo una parete di vetro lunga 47 metri per quattro di altezza, in cui ha graffiato il colore giallo monocromo in modo da produrre l’effetto ombra che ha qualità spaziali a seconda del movimento di chi ne fa esperienza.
Le opere di Stamkopoulos sono sottoposte quindi allo stesso processo di quelle di Kretschmann e Diodato il cui percorso comune è osservabile in una dinamica fra il prelievo e il rilievo, in cui lo spazio e il tempo sono connessi in una dimensione soggettiva e contemplativa quanto interpersonale e concreta. 
Nel tempo la pittura di Stamkopoulos si è evoluta attraverso il rilievo da una fase di studio “scientifico” sulla traccia che nello stesso tempo era sintesi di un precedente periodo in cui utilizzava la tecnica del dripping sull’intero spazio della tela. 
Nelle sue successive opere più minimali lo spazio vuoto nell’immagine era un campo attivo che aderiva completamente a quello fisico dell’osservatore, trasportato e guidato tra segni a spray e piatti concentrati di materia fino ai bordi della tela e oltre. 
I lavori in mostra sono quattro quadri ad olio della sua più recente produzione, due su tela preparata e due su lino grezzo in cui il rilievo, quasi barocco per il suo slancio e la sua continuità, contribuisce al movimento insieme all’affiorare di impronte circolari e smagliature che percorrono lo spazio dell’immagine.
Uno dei quadri esposti, in cui lo spazio non trattato della tela corrisponde all’immagine di un dripping, sintetizza tutti e tre i periodi della pittura di Stamkopoulos qui indagati. La colatura è diventata un filtro, un’ulteriore ed ennesima stratificazione.
Le varie fasi della pittura di Stamkopoulos continuamente aperta alla sperimentazione sono compenetrate anche nell’altro quadro ad olio su tela bianca in cui si può notare la transizione dai precedenti lavori con l’acrilico, perchè nel campo vuoto si stagliano ancora dei frammenti di materia non più piatti ma con il pigmento ad olio dato direttamente dal tubetto che si inserisce in una trama porosa prodotta dalla stessa reazione materica della pasta oleosa.
Le due più recenti tele su lino grezzo sviluppano allo stesso modo quella texture dei primi lavori di pollockiana ascendenza componendo una sorta di “camouflage” in cui il colore ritorna in prima linea alla pari del segno e la forma frammentata si carica di evidenti proprietà cinetiche.

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