Sebastian Stumpf: Certain Peaks
Opening 20.11.2024 6pm
La Galleria Mario Iannelli è lieta di annunciare Certain Peaks, una mostra personale di Sebastian Stumpf che presenta nuovi lavori che si confrontano con lo spazio della galleria e il paesaggio storico e urbano di Roma.
Le azioni di Sebastian Stumpf esplorano la relazione del corpo con gli spazi pubblici, artistici e istituzionali, mettendo in discussione la percezione dell’osservatore con gesti specifici e l’immaginazione del luogo performato.
Nelle nuove opere, Stumpf affronta le questioni della presenza fisica e dell'assenza, della durata dell'architettura e della temporalità della fotografia e del film. Parte della mostra è anche l'estensione delle sue proiezioni site-specific Leaving White Spaces.
Sebastian Stumpf (1980) vive a Lipsia.
Sebastian Stumpf ha studiato presso le scuole d'arte di Norimberga, Lione e Lipsia. Nel 2008 è stato allievo di Timm Rautert.
Tra le mostre personali figurano la Galerie Thomas Fischer di Berlino, il Museum Folkwang di Essen, il Museum für Photographie di Braunschweig, l'Annex 14 di Zurigo e la Landesgalerie di Linz.
Il suo lavoro è stato esposto alla 6ª Biennale di Berlino e alla Triennale di Aichi a Nagoya, oltre che in numerose mostre collettive, tra cui Contemporary Arts Center, Cincinnati, Le Bal, Parigi, OCAT Shanghai, Museum der Bildenden Künste Leipzig, Tokyo Wonder Site/Institute of Contemporary Art, Blaffer Art Museum, Houston.
Nel 2016 ha ricevuto la borsa di studio per la fotografia tedesca contemporanea ed è stato borsista presso Villa Aurora a Los Angeles.
Ha realizzato un'installazione art-in-architecure per la Kulturstiftung des Bundes di Halle, una proiezione video permanente per la Kunsthaus Göttingen e recentemente un'installazione sonora site-specific per la Hamburger Kunsthalle.
Sebastian Stumpf
Certain Peaks
Il gap a Roma è quello che ci separa sempre dall’eternità e ci riconnette ad essa, che si trova nella stratificazione dei tempi che è pari ad una vertigine dei movimenti che si sono susseguiti - movimenti storici, artistici, religiosi e migratori - e da un passato perduto con la società moderna.
Il piacere è ritrovare quell’intervallo classico e quella luce nelle pieghe. La luce penetra gli interstizi rendendoli già poetici.
Il gap è anche trovare una propria espressione nella complessa viabilità di Roma e negli spazi rubati alla natura e alla comunità dalla città sempre più governata da apparati produttivi e logiche consumistiche.
Questi spazi vergini, in cui potrebbe nascere qualcosa di nuovo, sono quindi sia i marmi bianchi che sono arrivati a noi come rovine monocrome antiche, che gli spazi selvaggi, in cui l’ordine dell’urbanità e del paesaggio naturale non riescono ad essere mantenuti, dando luogo a rovine punk moderne.
Roma è piena di gap perché il suo suolo non è mai piano, in ogni punto è piena di buche, dossi, inclinazioni che rendono il passaggio in qualche modo una performance.
Nel romanzo “Wittgenstein’s Mistress” di David Markson la protagonista si sposta in un mondo apocalittico in cui non ci sono più abitanti ma solo cose, che non sono più usate e quindi sono solo rottami. Quelle cose sono diventate solo denominazioni di una cosa, inquadrate in una categoria astratta e in una serie produttiva che limitano la possibilità di trovare un altro senso fuori di essa.
La figura unica che Stumpf disegna nel paesaggio con le sue azioni sembra vagare in uno scenario di quel tipo. Nonostante lo sfondo ci appaia familiare, l’esperienza in esso è spiazzante.
Le posizioni ed i movimenti liberi e precisi che Sebastian Stumpf esegue sono lavori sulla tensione da una parte e sullo sconfinamento dall’altra, quindi sull’immaginazione, rivolta alla collettività in cui ambienta il suo lavoro. In questo modo il gesto dell’artista è esemplare di un modo possibile di vivere il paesaggio e la realtà, che non ha né dell’umoristico né del punk, ma che tende a superare confini soprattutto mentali. Le sue performances svelano l’illusione di quei limiti, la vertigine che porta ad un possibile sovvertimento.
Appropriarsi dello spazio per riconsegnarlo nuovo per mezzo di una performance concettuale nell’ambiente. E’ la verifica di questa possibilità che conta, testimoniata nell’opera nel visibile filo che lega la performance alla macchina fotografica. Conta la potenzialità e la potenza del gesto, l’intenzionalità di farlo ed osservarlo.
Le pose e le azioni eseguite parlano dell’irripetibilità dell’attimo e della sospensione dei pensieri nello spazio. E’ Il sovvertimento e il nuovo equilibrio tra pienezza e vuoto e tra stasi e movimento che è più importante per raggiungere certe vette. La performance di Stumpf negli spazi istituzionali e della galleria configura lo spazio come un “white space”, uno spazio per l’emergenza di un nuovo paradigma, contrario al “white cube” ovvero uno spazio sottoposto ad un continuo cambiamento di uno spazio vuoto. Portano oltre uno spazio dato verso uno in cui è possibile l’insorgenza di un gesto. In aria, steso o dritto in piedi Sebastian Stumpf ricerca e domanda un’immagine, un nuovo rapporto con l’ambiente.
Questo quadro individua una ricerca artistica che si concentra sul paesaggio, sulla centralità del corpo e sul pensiero nomade.
Deleuze distingue la nozione di corpo “mentale” quale zona di sperimentazione e d’espressione a partire da forze inconsce da quella di corpo oggettivato che si sovrappone al desiderio.
Le performance di Stumpf che rendono il corpo in maniera comunemente indefinibile nel paesaggio sono un esempio del primo tipo. Mutano ogni posizione di dominio sulla natura.
Rinnovando la tradizione della fotografia soggettiva d’autore - quella di Timm Rautert con cui ha studiato e di Otto Steinert da cui Rautert si è formato - interpretano un’azione soggettiva nel paesaggio oggettivizzando la soggettività.
Oggettivizzare, in questo caso, non è un ridurre a categorie funzionali ma introdurre la propria soggettività nuova e potenzialmente sovversiva nel rapporto col cosmo inteso come ordine.
Ugualmente, la pratica di Sebastian Stumpf si differenzia da quelle eroiche di Yves Klein e Bas Jan Ader, caratterizzandosi per un’anti-eroicità che risiede nella scelta degli spazi e nella modalità di esecuzione.
Attraverso tali impostazioni il corpo manifesta uno stato mentale occupando e transitando in spazi vuoti, effimeri, immateriali ed impermanenti.
“Certi picchi” sono sia questi “white spaces”, sia i tentativi ripetuti d’azione, le rotture e le variazioni, che gli stati di equilibrio oltre la tensione, i gaps e le transizioni nello spazio (“Transitions #1”, “Ocean”).
L’immagine reale e surreale creata da Stumpf pone un ulteriore parallelo con la pittura di Magritte per la messa in discussione delle aspettative dello spettatore riguardo alla rappresentazione e alla realtà attraverso l’introduzione in essa di elementi incongruenti mirati a far riflettere sulla percezione, ciò che è valso a Magritte l’essere chiamato “anti-pittore”.
In questo senso l’anti-eroicità è il segno di un'atto che vuole dare sia una prova della convenzionalità che della differente percezione.
Nello stesso modo in cui vediamo figure sospese nel cielo o con un mela davanti al volto nei quadri di Magritte, vediamo la figura sospesa di Stumpf da dietro e mai di fronte nei paesaggi californiani di “Fences”, nei cieli tra i gap delle architetture di Tokyo (“Sukima”) e in quelli specchiati nella vastità dell’oceano (“Islands”).
Se Magritte ha sovvertito le aspettative tradizionali della realtà in pittura, Stumpf lo fa nella performance e nella fotografia.
Nella spiazzante realtà immaginata da Markson in “Wittgenstein Mistress” la protagonista compie azioni ironiche al limite dell’impossibile che fanno riflettere se quelle stesse azioni fossero compiute di fronte a degli spettatori.
L’opera di Stumpf analizza anche questo nel suo cogliere l’intero processo della realtà.
Le persone che casualmente si trovano ad essere testimoni delle azioni mentre sparisce dietro ad un colonna (“Columns”), sale su un albero (“Trees”), si getta da un ponte (“Bridges”) o si getta sotto ad una saracinesca che si sta chiudendo (“Tiefgaragen”) confermano involontariamente il senso dell’azione essendo parte della performance come se in fondo non ci fossero nel loro essere in un flusso.
Il senso della performance di Sebastian Stumpf risiede nella percezione differente di un luogo, di una situazione, di un mondo. Quello che ci fa vedere è la possibilità di quello che potrebbe essere.
Durante l’azione lo spettatore è assente o casuale. Nelle fotografie e nei video, invece, la prospettiva è ribaltata su un osservatore più consapevole.
La meditazione come costante pratica di andare verso, attraverso ed oltre gli “spazi bianchi” si compie nell’ampio respiro di un’azione ripetuta e nomade.
L’anti-drammaticità o anti-monumentalità del gesto svela in realtà la presenza di un’altra forma di eroicità che non si riferisce a grandi gesta o a significanti pezzi di Storia ma ad una performance per se stessi e per tutti.
Testo di Mario Iannelli